Libri su Giovanni Papini

2020


a cura di Lucia Bachelet, Francesca Golia, Enrico Ricceri, Eugenia Maria Rossi

Contesti, forme e riflessi della censura.
Creazione, ricezione e canoni culturali tra XVI e XX secolo



Francesca Golia
Papini e lo specchio dello scandalo, pp. 39-56
31-32-33-34-35-36-37-38(39-40
41-42-43-44-45-46-47-48-49-50
51-52-53-54-55-56)57-58-59-60



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Ogni uomo ha il dovere di apparire, diventare, di essere il contrario di quel che è per nascita, natura e destino. [...] non c’è dritto che nel rovescio.

Giovanni Papini, Anch’io son borghese, 1914



Introduzione

Che il momento della pratica scrittoria sia strettamente legato a quello della ricezione, si può affermare a proposito di ogni autore che si domandi per quale fine scriva e a quali lettori si rivolga. D’altra parte, non sarà inutile insistere su tale considerazione a proposito di uno scrittore come Giovanni Papini il quale sembra spesso anteporre, alla scelta dell’argomento e dello stile, la previsione dell’effetto che intende suscitare. Nelle pagine che seguono, una riflessione incentrata sulla dimensione paradossale dello scandalo costituirà l’angolazione dalla quale leggere il rapporto dello scrittore con la ricezione e, in particolare, le sue provocazioni volte a ottenere un rifiuto e una risposta censoria.
   Come si sa, uno degli effetti paradossali della censura è quello di alimentare il successo delle opere e degli scrittori che ne diventano l’oggetto 1. Papini è stato spesso accusato – dai contemporanei e, più recentemente, da alcuni studiosi – di servirsi dello scandalo quale macchina promotrice 2, un’accusa che fin dai suoi primi esperimenti si premurava di respingere:

Non siamo già di que’ boccaloni che [...] aspettano a gloria una scomunica o un’iscrizione nell’Indice colla speranza di spacciare, finalmente, i loro libri – e non siamo neppure di quegli arruffapopoli cui fanno gola i sei mesi di prigione per procacciarsi un posto nel registro de’ martiri o, meglio ancora, nella Camera dei Deputati 3.



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   Sebbene tale elemento non si possa escludere e non si debba far troppo affidamento sul «teatro esteriore di Papini» 4, un discorso che si limitasse a questa considerazione sarebbe, a nostro avviso, riduttivo. L’ipotesi che questo contributo si propone di verificare è che, nel percorso intellettuale e religioso di Papini, la previsione e la voluttà della censura siano ascrivibili a un’operazione conoscitiva più profonda e coerente. Si tratterà perciò di mostrare come il ricorso allo scandalo da parte dello scrittore non rappresenti tanto un episodico capriccio, quanto un necessario modus operandi che, nel contesto di un metodo formalizzato, ha la funzione di smascherare le intenzioni e le contraddizioni dei suoi interlocutori.
   Nella nostra analisi, le riflessioni del filosofo Sören Kierkegaard sulla dimensione dialettica dello scandalo saranno utilizzate a questo scopo quale strumento critico. Come testimonia il catalogo della sua biblioteca, Papini fu un attento e aggiornato lettore del filosofo danese, del quale possedeva numerosi libri che leggeva in francese e in italiano 5. Nella rubrica intitolata «Kierkegaard (su)» sono inoltre classificati gli studi critici posseduti da Papini che alcuni tra i maggiori studiosi europei avevano in quegli anni dedicato al filosofo – si tratta di un insolito segno di umiltà da parte di uno scrittore che preferiva leggere le opere senza filtri critici interposti. In questa rubrica, la presenza di uno studio critico che Raoul Hoffmann aveva dedicato nel 1908 6 al pensiero religioso di Kierkegaard è un indicatore della verosimile conoscenza, da parte di Papini, di questo aspetto del pensiero del filosofo, fin dagli anni in cui i suoi scritti erano ancora percepiti in Italia quali curiosità letterarie e bizzarrie di un animo malinconico 7. Nel 1906 la rivista culturale «Leonardo», fondata da Papini con Prezzolini, pubblicherà il primo saggio divulgativo in italiano dedicato al filosofo 8. Si tratta di una scelta coerente con gli intenti della rivista


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che si proponeva di far conoscere gli uomini più importanti della cultura italiana ed europea e tra questi, in particolare, i filosofi. Come osserva De Paulis, l’apertura di Papini alle idee dei filosofi europei nasceva da una duplice esigenza: “sprovincializzare” i suoi referenti culturali e al tempo stesso misurarsi con tali figure per meglio comprendere la propria identità e definire un’immagine di sé 9.
   Nel commento della redazione non è difficile riconoscere lo stile dello scrittore 10. «In Italia nessuno o quasi conosce K. Oltre il nome. [...] Eppure questo singolare ed energico predicatore [...] potrebbe essere per noi un educatore, come è stato per i danesi» 11. Non si tratta, a dire il vero, di una delle sue consuete provocazioni, quanto della denuncia di una lacuna reale negli studi su Kierkegaard in Italia, ai quali Papini darà un personale contributo, curando la prima traduzione italiana de Il più infelice, pubblicata nel 1907 con l’ultimo numero di «Leonardo» 12. Se alcuni studi recenti dedicati alla ricezione del filosofo mettono in valore il ruolo dello scrittore fiorentino quale suo primo divulgatore in Italia 13, sorprende l’assenza di letteratura sulla verosimile influenza del pensiero religioso di Kierkegaard sugli scritti di Papini, il cui riflesso è una consonanza tematica sulla quale il presente contributo propone alcune riflessioni preliminari.
   A partire dalla seconda metà del Novecento, gli scritti religiosi di Kierkegaard avevano riportato all’effettiva centralità che essa riveste nei vangeli canonici la nozione di skandalon, a lungo sottovalutata dagli interpreti, presumibilmente a causa delle sue traduzioni riduttive («pietra d’inciampo», «trappola», «ostacolo») 14, le quali la riconducono a una dimensione oggettuale. Tuttavia, nel cosiddetto Nuovo Testamento lo skandalon non coincide mai con un oggetto materiale 15, bensì rappresenta un elemento dinamico che non può prescindere da una relazione. Si tratta a ben vedere di una relazione triangolare al centro della quale è posto l’uomo, la cui fede


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è vagliata mediante la possibilità dello scandalo. Quest’ultima costituisce per Kierkegaard il «momento dialettico in tutto il pensiero cristiano» 16, in quanto si produce attraverso il confronto con il suo nodo cruciale: la contraddizione tra umano e divino che pone l’uomo davanti a uno specchio, ne svela le intenzioni segrete, le intime contraddizioni, costringendolo a una scelta tra la strada della negazione e quella della fede 17. Perciò lo scandalo «ha per nodo dialettico il paradosso» 18, ma ci sembra che questo avvenga per un’altra ragione ancora. Nei vangeli sia Cristo che Satana sono infatti portatori della possibilità di scandalo. Secondo modalità e con fini opposti, nei ruoli del Paraclito 19 e dell’Accusatore 20, costituiscono i due poli dialettici di un campo di tensioni al centro del quale l’uomo si pone. Cristo e il diavolo rappresentano anche i due «poli d’attrazione» 21, entro i quali si agita il pensiero di Papini, nell’ambito di un’«odissea intellettuale» 22 – la definizione è di Lovreglio – che assumerà i tratti di un combattimento spirituale, in seguito al progressivo avvicinamento dello scrittore al cattolicesimo.
   Carlo Bo invitava a diffidare di ogni distinzione troppo rigida tra un primo Papini – non ancora convertito – e lo scrittore “cattolico”: un taglio netto che appariva ai suoi occhi come un facile escamotage 23. Alcune recenti monografie hanno dimostrato la fecondità di tale indicazione 24 e, nella medesima direzione critica, si vuole proporre una lettura dell’iter di Papini nella quale sia possibile tenere insieme, da un lato le innegabili contraddizioni, e dall’altro la sua paradossale coerenza che consiste, a nostro avviso, nell’attraversamento della contraddizione intellettuale «fino all’ultime conseguenze» 25.


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«Il demonio mi disse». Teoria e pratica del metodo dello scandalo

Se la persona di Cristo quale «scandalo essenziale» 26 occupa una posizione nevralgica nella riflessione religiosa di Kierkegaard, si vuole ora mostrare come nella produzione giovanile di Papini prevalga, al contrario, un’accezione diabolica dello scandalo.
   I due racconti pubblicati nel 1906 – Il Demonio mi disse e Il Demonio Tentato 27 – che diversi anni dopo lo scrittore maturo definirà «due moralità fantastiche» 28, offrono un esempio della sua preferenza per la figura del diavolo. Il protagonista de Il Demonio mi disse è un «diavolo senza corna» 29, un alter ego dello scrittore con il quale condivide non soltanto i lineamenti, ma il sogno di realizzare un’edizione della Bibbia «accresciuta e corretta» 30. Come è stato osservato, dietro i toni fantastici, nel racconto si celano diversi elementi filosofici e in particolare i concetti fondamentali del «pragmatismo» papiniano 31. Il demonio si presenta infatti come un’esteriorizzazione del desiderio di grandezza del giovane scrittore 32, per il quale l’ambizione di diventare un uomo-Dio coincide con l’aspirazione a una conoscenza enciclopedica e alla «creazione di un’enciclopedia che non solo contenesse la materia di tutte le enciclopedie di tutti i paesi e di tutte le lingue, ma le superasse e le sorpassasse» 33. Le parole pronunciate dal suo alter ego indicano chiaramente quanto le ambizioni del giovane Papini vogliano lasciarsi ricondurre alla radice dello scandalo diabolico: «E voi sapete, caro amico che sapienza è potenza e ch’essere Iddio significa appunto essere sapiente e potente [...]» 34. Sebbene nei vangeli presenti delle caratteristiche


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peculiari, l’archetipo di tale scandalo sarà da ricercare nel libro della Genesi, dove l’accettazione da parte dell’uomo della proposta diabolica è interpretata quale peccato originante dagli esegeti cristiani. Il diavolo papiniano si riallaccia appunto a questo racconto che lo vede protagonista, per offrire al suo interlocutore la sua versione “corretta”. Pur ammettendo di aver promesso a Eva che, se avesse mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male, sarebbe diventata simile a Dio, egli si difende dall’accusa di averla ingannata. Il diavolo avrebbe infatti suggerito a Eva di mangiare tutti i frutti dell’albero ma la donna, a causa dalla fretta, si sarebbe limitata a uno soltanto 35. Dietro i toni leggeri e un’ironia vagamente misogina, il racconto papiniano ben individua come nella contraddizione o, per meglio dire, nella competizione tra umano e divino, interamente giocata sul terreno della conoscenza, risieda il nodo principale dello skandalon diabolico. Soltanto il raggiungimento di una conoscenza universale costituisce infatti per l’uomo la possibilità di contrapporsi a Dio e di arrivare finalmente a negarlo, in quanto non più necessario. Tuttavia, Adamo ed Eva si sono limitati a mangiare un frutto soltanto e la conoscenza degli uomini è rimasta parziale, perciò essi sono ancora soggetti al potere di Dio. Il racconto ha però un lieto fine: il demonio rivela allo scrittore che «qualche seme di quell’albero è volato fuori» e che all’uomo spetta il compito di cercarlo e di «educarlo perché cresca e dia ancora una volta i suoi frutti» 36, affinché la promessa diabolica si compia.
   Dove Papini li abbia cercati e trovati, lo spiegherà in un saggio pubblicato qualche anno più tardi, dal titolo L’Altra metà. Saggio di Filosofia mefistofelica (1911) 37, nel quale mostra come i semi della sapienza diabolica risiedano nell’«altra metà» dei concetti, ovvero nell’elemento negativo e critico che ogni concetto affermativo e ogni verità condivisa contengono. La scienza universale promessa dal diavolo si articola in una filosofia che tiene conto della negazione, per scardinare i concetti affermativi e distruggere ogni certezza. In seguito a questa intuizione, lo scrittore rivendica quale sua precipua «missione» la possibilità di esplorare i concetti scomodi e assurdi che spalancano la conoscenza del pensatore alla molteplicità e alla libertà, spianando la strada al sapere universale:

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Credo che la mia missione [...] abbia da esser quella medesima del diavolo, nel grande universo del Signore Iddio. Negare, risvegliare, pungere e tentare. Ribellarsi, spingere al male (in teoria = falso, assurdo), additare gli abissi, condurre per la mano, attraversare le tenebre, precipitar nell’inferno dell’insaziante particolare in odio al paradiso dell’unità e dell’ordine. [...] Io mi sobbarco a far questa parte: sono una vittima, una specie di Cristo espiatorio. Sto nel no. Nel cattivo di no, nel cattivo no, perché altri possa scoprire, salendomi addosso, nuovi sì 38.

   Come queste parole lasciano intuire, il momento negativo e critico costituisce soltanto il punto di partenza per la rivoluzione che Papini intende attuare, ma i soli concetti non bastano: perché si assista davvero a «Novità e capovolgimento» bisogna infatti che questi vi siano «anche nel metodo» 39. Occorre perciò elaborare una vera e propria metodologia dello scandalo il cui dispositivo è la «contraddizione necessaria» che è «la più vera e tragica legge del pensiero»: una dialettica tra verità condivise e la loro puntuale negazione, tra due poli opposti «legati dall’odio, legati dal rovesciamento, legati dalla comune domanda per quanto l’un dica di sì e l’altro no...» 40.
   Una delle applicazioni di maggiore successo del metodo formulato nel 1911 è l’articolo Gesù Peccatore 41, pubblicato nel 1913 su «Lacerba», la rivista d’avanguardia che Papini dirigeva con Ardengo Soffici. Lo scrittore presenta la sua operazione quale «processo indiziario» 42 il cui scopo è quello di esplorare un’ipotesi «contraria» 43 al senso comune, come gli ha suggerito di fare «quel demonio» che gli «sta alle costole fin dal 1903 o 1904» 44. Che negli anni della sua giovinezza – di cui i vangeli non fanno parola – Gesù potrebbe essere stato un «povero peccatore» come tutti, l’autore si propone di suggerirlo avvalendosi degli indizi che recupera dai vangeli apocrifi. Papini ribadisce che la sua è una «requisitoria» nella quale non vi è alcuna prova certa, ma in primo luogo tiene a precisare chi sono gli interlocutori che intende colpire. Il suo obiettivo polemico sono gli «storici o filosofi o spiritualisti o liberi pensatori, ecc. ecc. – che

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pur non credendo affatto alla divinità o al carattere sovrannaturale di Gesù pure riconoscono in lui uno degli esemplari più alti dell’uomo giusto, morale, eticamente superiore» 45. Immediatamente si preoccupa di distinguere questa categoria di «cristianucci» 46 dai veri cristiani i quali credono «che Cristo è Dio o figlio d’Iddio o Dio fattosi uomo o uomo diventato Dio» 47, dichiarando di voler lasciare da parte questi ultimi 48.
   Ci sembra che la vera ipotesi sottesa all’articolo risieda appunto in questa netta distinzione e che lo scandalo che Papini è certo di suscitare 49 rappresenti lo strumento per verificarla. Come dirà anni dopo, il suo intento era precisamente quello di vagliare i suoi lettori porgendo loro uno «specchio lucido e spietato» 50 che ne svelasse le contraddizioni e le ipocrisie. Sono queste le caratteristiche del vaglio di Satana che emergono dai luoghi paralleli dei vangeli di Luca, Marco e Matteo 51, un vaglio che avviene attraverso la possibilità dello scandalo che consente di separare, come il grano buono da quello cattivo, i veri credenti dagli ipocriti. L’autore suggerisce che istillare un dubbio critico, un «sospetto fondato» 52, costituisce un passaggio importante, ma non il suo obiettivo finale. L’obiettivo delle sue provocazioni è quello di accusare i cosiddetti liberi pensatori, che hanno fatto di Gesù un «bazar vivente di virtù» 53 per non contraddire il senso comune, di non aver avuto il coraggio di una negazione che vada fino in fondo: «Chi gli nega la divinità pecca contro la teologia e le chiese – ma chi gli negasse la perfezione morale peccherebbe contro il comune senso dell’umanità» 54. Le riflessioni di Kierkegaard insistono su tale punto: lo scandalo non pone l’uomo di fronte al bivio tra il dubbio e la fede, bensì tra questa e la sua negazione. Senza compiere il salto della fede, è perciò impossibile affermare – per Kierkegaard come per Papini – che un uomo che si dice Dio sia «un gran buon uomo» 55.

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   Oggi poco noto, l’articolo ebbe una grande risonanza, dando luogo a quanto lo scrittore definirà un «Doppio processo: civile ed ecclesiastico» 56. Qualche giorno dopo la sua pubblicazione, l’arcivescovo di Firenze, pronunciando la sua omelia domenicale, si dirà «pastore preoccupato per il suo gregge» minacciato dai «seminatori di scandalo» della rivista «Lacerba», di cui da quel momento in poi proibisce la lettura e l’acquisto. Nell’articolo intitolato Lacerba sotto processo, Papini dichiara di non meravigliarsi di tale reazione e aggiunge: «chi può biasimare l’arcivescovo di Firenze per aver proibito la lettura del nostro foglio ai fedeli? Mi par assai che abbia aspettato tanto» 57. Un’ulteriore conseguenza della scandalosa requisitoria è il vero e proprio processo indiziario che nel 1914 vedrà lo scrittore imputato per «Oltraggio alla religione di Stato», un’accusa dalla quale sarà poi assolto. La requisitoria, gli elementi della denuncia e la sentenza del processo si possono consultare presso l’Archivio di Stato di Firenze 58. Si tratta di una lettura godibile la cui acme coincide con l’interrogatorio di Papini, il quale si limita a dire che il processo è grottesco e che i suoi interlocutori non sono capaci di fare una requisitoria. In effetti, gli accusatori non rivelano grandi capacità argomentative, ma si servono di esagerazioni generiche (come l’accusa di pornografia) e mostrano una scarsa conoscenza della Sacra Scrittura, confondendo Giovanni Apostolo con Giovanni il Battista. Infine, utilizzando termini come «feticismo» dei fedeli, rivelano di prendere la fede di questi ultimi meno seriamente di quanto non faccia l’imputato.
   Ai due processi si aggiunge quello trasversale dell’«opinione pubblica» 59, generato dalle accuse di coloro che Papini definisce gli «scandalosi scandalizzati», i «devoti bestemmiatori», precisamente quei “cristianucci” che si proponeva di colpire. Nell’allusione ai devoti bestemmiatori sarà da riconoscere un riferimento al giornalista Ferdinando Paolieri che nei suoi articoli su «La Nazione» si scagliava contro l’operazione di Papini. Paolieri era stato un «bestemmiatore di piazza» 60 – come lo definisce Viviani – precedentemente autore, sotto

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pseudonimi, di libri pornografici, divenuto poi uno zelante castigatore della moralità dei fiorentini, in seguito alla sua conversione al cattolicesimo 61. Papini considera quest’ultimo processo come il più importante, perché rappresenta la conferma del successo della sua operazione che a suo avviso consisteva nello scagliare «qualche buon paradosso per smuovere gli stagni della cultura» 62.

Il Diavolo e lo scandalo cristico

   Un discorso che intenda ripercorre il rapporto dialettico tra la ricomprensione del concetto di scandalo e il rapporto con la censura lungo il percorso di Giovanni Papini non può prescindere da uno dei suoi nodi maggiormente problematici. Si allude all’opera Il Diavolo. Per una futura diabologia 63 scritta nel 1950 e pubblicata con Vallecchi tre anni dopo. Ormai considerato a tutti gli effetti un apologeta cattolico, con il saggio del 1953 l’anziano scrittore fa ritorno alla cara tematica del diavolo, tornando a dare scandalo ma – come si vedrà – il legame tra questi due elementi risulta più complesso di quanto appaia. Le reazioni suscitate dal libro sono state oggetto dell’esaustiva analisi di Janvier Lovreglio 64 e saranno in questa sede ripercorse in relazione alla questione principale che il nostro contributo si propone di affrontare. Se una visione dello scandalo nella sua accezione diabolica caratterizza i passaggi finora analizzati, si tratterà ora di mostrare che con l’opera che precede di qualche anno la morte dello scrittore, si assiste a una più radicale ricomprensione della nozione di scandalo nella sua accezione cristica.
   Occorre innanzitutto precisare in cosa consista il nodo scandaloso di un’opera che l’autore presenta come «il primo libro sul Diavolo scritto da un cristiano, secondo il senso più profondo del cristianesimo» 65. Il fulcro delle tesi sviluppate nel saggio è la teoria dell’Apocatastasi (o rigenerazione finale) che fu sviluppata da uno dei padri della Chiesa, Origene, nel 220 d.C. 66. La teoria presuppone che l’intero universo sarà

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salvato nell’ultimo giorno e che alla salvezza universale il diavolo non farà eccezione, coerentemente con quanto Paolo afferma nella prima lettera ai Corinzi: nell’ultimo giorno Dio sarà «tutto in tutti» 67. La tesi fu «pacificamente» criticata da Agostino 68 – contemporaneo di Origene – e definita eretica soltanto dopo tre secoli, da un editto dell’imperatore Giustiniano. Come tale fu riconfermata da quattro concili ecumenici, in parallelo alla proclamazione da parte della chiesa del dogma dell’immutabilità dei giudizi e delle pene 69.
   Il Diavolo ebbe un grande successo e all’inizio del 1954 era già alla sua quarta edizione, ma non mancò di suscitare reazioni contrastanti, e le critiche più accese furono mosse allo scrittore da parte dei laici e dei non credenti 70. Le posizioni del mondo cattolico non erano unanimi: i più giovani rimasero affascinati dall’audacia delle sue tesi e anche per questa ragione, con una circolare di Monsignor Luigi Traglia del 4 gennaio 1954, il vicariato di Roma vietò la vendita del libro nella capitale, chiedendone il ritiro dalle vetrine e dai magazzini 71. Monsignor Traglia era uno dei venti membri della sezione deputata alla censura della Congregazione del Santo Uffizio, alla quale l’opera fu sottoposta senza che ne fosse decretata la messa all’Indice, data invece per certa dalla stampa. In un’intervista rilasciata a un giornalista de «Il Tempo», Papini dichiarava che se il suo libro fosse stato messo all’Indice ne avrebbe sofferto ma, d’altra parte, la medesima sorte era toccata anche ad altri, tra i quali ricordava Galileo e Rosmini, condannati in un primo momento, ma poi compresi e riabilitati 72. Il Vaticano si espresse sull’argomento con un articolo pubblicato sull’«Osservatore Romano» nel quale, dando prova fin dal titolo – Una condanna superflua 73 – di grande sottigliezza argomentativa, s’insinuava che l’operazione tentata da Papini

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fosse una messa in scena per ottenere un maggiore successo 74. L’autore anonimo sceglie la strada di una narrazione ironica, incentrata sulla contraddizione tra la visione condivisa della Congregazione del Santo Uffizio quale terribile organo di polizia intellettuale e la decisione di giudicare invece «superflua» questa condanna da parte dell’istituzione. Nei termini del canone 1399 – precisa l’autore – il libro è senz’altro da ritenere pieno di errori e perciò ipso iure prohibitus, ma la Chiesa rimane pur sempre «un’istituzione seria» la quale interviene soltanto in caso di errori gravi, vòlti a costituire una trappola (uno scandalo) per la buona fede dei credenti, perciò non sa cosa farsene di un libro come questo 75. Sebbene Papini stesso rivendicasse la natura teologica, anzi diabologica 76, della sua operazione, la scelta adottata dalla chiesa è quella di ridimensionarla, considerandola una fantasia da letterati. Tuttavia, una reazione straordinaria interviene a contraddire quanto detto e a confermare che la ricezione dell’opera non fosse univoca. Si allude alla critica mossa allo scrittore da Pio XII durante il sesto congresso dell’Unione dei giuristi cattolici 77: nel contesto di un discorso incentrato sul dogma dell’immutabilità del giudizio divino, pur non citandone il titolo, il pontefice si riferiva a un libro pubblicato «di recente» il quale avrebbe generato un dibattito che rivelava una grande mancanza di conoscenza della dottrina cattolica e derivava da premesse false o mal comprese 78. Come osserva Lovreglio, si tratta di un evento eccezionale in quanto, per la prima volta in sedici anni di pontificato, Pio XII criticava uno scrittore a lui contemporaneo 79. A proposito della condanna da parte della chiesa, che come si è detto non risulta univoca, si potrà osservare come essa non si attui dal punto di vista istituzionale, bensì mediante l’utilizzo dei mezzi di comunicazione.
   Diverse sono le ipotesi formulate da Lovreglio per spiegare le ragioni della mancata messa all’indice del Diavolo, la quale non era stata risparmiata, negli stessi anni, a libri meno audaci. La prima ragione risiede nel tentativo di evitare che l’opera, una volta proibita, riscuotesse un successo

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maggiore 80. La seconda ragione sarebbe invece legata all’immagine consolidata di Papini quale scrittore “cattolico” la cui aperta condanna sarebbe risultata problematica 81. A tali ipotesi si intende ora aggiungere una terza la quale richiede di meglio precisare la tipologia di scandalo con cui lo scrittore si confronta. In un’intervista rilasciata al quotidiano «Le Monde», il giorno dopo l’interdizione alla vendita del libro da parte del vicariato di Roma, Papini affermava: «J’estime que mon livre peut être une pierre lancée dans le marais de l’immobilisme spirituel de notre temps» 82. La dichiarazione riprende, con minime variazioni, quanto Papini aveva scritto su «Lacerba» dopo lo scandalo suscitato dall’articolo Gesù Peccatore (1913): «Tutto è capo di accusa contro di noi [...] l’aver scagliato qualche buon paradosso per smuovere gli stagni della cultura [...]» 83. La dimensione spirituale si sostituisce ora a quella culturale, ma entrambe sono descritte utilizzando l’immagine di uno stagno immobile. La pietra che Papini afferma di aver lanciato richiama la «pietra di inciampo» una delle possibili traduzioni dello skandalon, il quale colpisce appunto mediante il «paradosso». Se a proposito dell’articolo del 1913 lo scrittore non esitava a ricondurre tale operazione a una radice diabolica – «Fu la massima vittoria dell’avversario che mi aveva allettato, anche questa volta, colla vecchia lenza del paradosso» – nella prefazione al saggio del 1953, dichiara invece di essere stato guidato «da un senso di carità e di misericordia» 84 nello scrivere il libro. In effetti nel Diavolo sono contenute alcune tra le sue pagine più delicate e commoventi e lo stile per nulla ricorda l’aggressività e le provocazioni degli inizi.
   Nell’introduzione è tuttavia possibile rintracciare i fondamenti di quella “metodologia dello scandalo” alla quale, negli anni giovanili, lo scrittore si era esercitato. Per prima cosa, Papini individua con precisione gli interlocutori a cui si rivolge: coloro i quali sono «muniti di buona intelligenza e di buona fede» 85. Proseguendo nella lettura si comprende che questi dovranno essere distinti da coloro che rimarranno scandalizzati dal libro: gli «onesti guardiani della ortodossia» a proposito dei quali lo scrittore esprime l’augurio che «non si scandalizzeranno

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troppo di certe ardite espressioni» della sua «speranza cristiana» 86, consapevole che queste speranze non siano sostenute da «prove dommatiche» 87. L’obiettivo dichiarato è quello di «studiare», liberandosi da «pregiudizi e prevenzioni» 88 i problemi legati al diavolo, sulla scia della libertà mostrata dai primi Padri della Chiesa. Papini osserva che nei secoli in cui la chiesa cristiana «aveva più calore e vigore di fede che non abbia oggi» 89 si discuteva con maggiore libertà a proposito dei dogmi, in dispute spesso considerate eretiche soltanto a posteriori. Oggi, di tali Padri non sono rimasti che i «timidi successori» i quali non affrontano i problemi cruciali, come quello del male, perché temono di «scandalizzare gli “spiriti liberi”» 90. Dopo aver sostanzialmente accusato gli uomini di chiesa di scarsa intelligenza e di ipocrisia, Papini rivendica per sé la necessità di un ulteriore passaggio attraverso la contraddizione, per diventare «cristiano fino all’ultime conseguenze – anche le più temerarie – del Cristianesimo» 91. Con un procedimento che gli è familiare, considera il libro quale vettore della possibilità dello scandalo e come uno strumento che permetta di vagliare i lettori, distinguendo il grano buono – questa volta i lettori di buona fede e buona intelligenza – dagli ipocriti: gli uomini della chiesa. Il proposito di vagliare impietosamente i suoi lettori sembra avere poco in comune con la misericordia professata nell’introduzione, ma d’altra parte è indubbio che le pagine del libro siano il risultato di una fede profonda. Come spiegare tale contraddizione?
   Nella prefazione alla Storia di Cristo (1921) – l’esito eclatante della sua lenta trasformazione spirituale – Papini annunciava di aver scritto il libro con l’intento di mostrare la «grandezza» e la «novità» di Cristo 92. I medesimi termini sono poi ripresi in uno dei capitoli più originali della Storia: «il più grande Rovesciatore è Gesù. Il supremo Paradossista, il Capovolgitore radicale e senza paura. La sua grandezza sta qui. La sua eterna novità e gioventù. Il segreto del gravitare d’ogni gran cuore,

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presto o tardi, verso il suo Evangelo» 93. Si comprende allora come lo scrittore abbia trovato la novità e la grandezza del messaggio cristiano ancora una volta nell’idea di un rovesciamento. Benché coerente con il suo pensiero, non si tratta di un’idea originale, ma del nucleo centrale della filosofia kierkegaardiana. L’Incarnazione di Cristo, che nella visione di Hegel rappresentava la sintesi risolutiva di umano e divino, era invece interpretata da Kierkegaard quale contraddizione insolubile: una sfida perenne alla conoscenza e alla logica dell’uomo 94. Il confronto con questo paradosso è la tappa obbligata per una conversione autentica che conduce l’uomo alla scelta per la fede e rovescia le sue certezze, spingendolo a percorrere l’opposita via 95. Allo stesso modo in cui – scrive Kierkegaard – Cristo non era un maestro accogliente dalla dolcezza fiabesca, un «Bertoldo divino» 96, la strada della fede non risulta semplice da percorrere, anzi comporta il recupero di tutta la violenza (intellettuale) del cristianesimo, che non ha per questo bisogno di apologeti, ma di nemici 97. L’ipotesi che Papini abbia riletto la figura di Cristo alla luce di tali riflessioni trova conferma negli appunti preparatori inediti alla Storia di Cristo, dove tra le poche fonti è citato il nome di Kierkegaard 98. Il catalogo della sua biblioteca permette inoltre di verificare le tappe di un confronto ininterrotto che giunge fino al 1952, l’anno al quale risale il contributo più aggiornato in suo possesso firmato da Cornelio Fabro 99, uno dei più significativi studiosi del filosofo danese in Italia 100.
   Nel saggio del 1953, quando Papini intende fornire le prove di una relazione ravvicinata tra Dio e il diavolo, cita i passaggi dei vangeli nei quali Cristo evoca lo scandalo, osservando che le sue parole sul vaglio di Satana «non sono abbastanza illuminate dai commentatori» 101. Dal canto suo, lo scrittore insiste sull’elemento del vaglio nel quale ritrova la caratteristica che accomuna lo scandalo cristico a quello diabolico: «A ogni modo Gesù non trascura e non disprezza quel suggerimento

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del Diavolo. Anzi ne tiene debito conto perché s’induce Lui stesso a pregare il Padre affinché la fede di Pietro si mantenga salda a dispetto di ogni vacillamento» 102. Il legame tra i due scandali è così stretto da renderli apparentemente indistinguibili, ma Papini non dimentica che tra Cristo e il diavolo vi sia una «diversità di linguaggio e di contegno» 103, oltre che di fini.
   Sebbene lo scrittore sia stato tentato dalla speranza del riassorbimento di ogni paradosso e di ogni dualismo nel principio unico e divino – l’idea che ben più della misericordia risiede al fondo delle teorie di Origene 104, – lascia aperta la strada alla contraddizione. L’approdo alla persona di Cristo quale offesa essenziale non offre infatti una sintesi risolutiva alla dialettica che tormenta Papini e con cui tormenta a sua volta i suoi lettori. Facendosi avvocato del diavolo ed esplorando l’altra metà di una verità stabilita che non mette più in pericolo, lo scrittore lascia i suoi lettori soli di fronte alla violenza di un’antinomia necessaria alla scelta, tanto della fede, quanto della negazione. La nostra ipotesi è che le risposte suscitate dal libro, intense, contrastanti e – a ben vedere – individuali, siano il riflesso di tale contraddizione. Lo scrittore esorta alla fede con la tenerezza del credente e al tempo stesso con la violenza dello scandalo, perciò non mette d’accordo i lettori, rendendo in parte problematica una risoluzione a livello istituzionale. Nel coro di scandalizzati, non mancano invece di levarsi voci entusiaste, per le ragioni che lucidamente riassume Jean Nicolas: «C’est un document passionnant de l’angoisse qui, déclarée ou non, étreint le cœur de nos contemporains chaque fois qu’ils envisagent le problème de leur destinée [...] et surtout le miroir fidèle d’une conscience sérieuse et subtile, cultivée et moderne, catholique et critique» 105.
   In conclusione, ci sembra che Papini intendesse scuotere con la pietra dello scandalo anche l’immobilità del proprio ruolo di apologeta cattolico e difensore dell’ortodossia, come sarà descritto, nonostante tutto, dall’elogio funebre pubblicato sull’«Osservatore Romano» 106. L’autore anonimo dell’elogio non dimentica di fare riferimento all’episodio

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del Diavolo: «Un’ombra, nel corso dei suoi ultimi anni, ha forse offuscato l’ortodossia dello scrittore, al punto di creare una forte apprensione da parte delle autorità ecclesiastiche e di coloro che lo amavano» 107. Si affretta però a scusare la «generosa stravaganza» 108, come si perdona una debolezza della vecchiaia.

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